Seminario 1-2 giugno 2025

Coloro che in origine si dedicavano alla via dello Yoga, o della realizzazione del Sè, provenivano da una formazione e da una cultura religiosa profondamente radicate, che risalivano ai Veda e alle Upanishad. Il percorso dello Yoga era inteso come un passaggio ulteriore, per quel conoscitore del Dharma che avesse completato i suoi doveri sacrificali e religiosi. Anche coloro che accedevano a ordini di yogi che non riconoscevano il sistema delle caste, erano comunque vissuti in un ambiente profondamente permeato dalla dottrina vedica, un contesto culturale, anche solo implicito, su cui si collocavano, per similitudine o per differenza, le conoscenze più esoteriche che lo yogi andava ad apprendere.
Per fare sì che la nostra conoscenza del pensiero indiano non sia superficiale e non si traduca in una semplificazione distorta dal pensiero e la mentalità occidentali, dobbiamo intraprendere un percorso che ci conduca a percepire il Sacro nella dimensione in cui è stato concepito, e che ha custodito le istruzioni spirituali di cui oggi prendiamo familiarità. Si può percepire uno scarto radicale dal pensiero ordinario, che ci mette al riparo dall’appropriazione culturale, da pregiudizi, credenze pregresse e meccanismi mentali di cui potremmo non essere consapevoli.
Dunque, cosa conoscevano gli yogi per poter essere qualificati alla Sadhana e alla realizzazione spirituale? Approfondire il pensiero religioso dell’India arcaica ci aiuta a entrare nella cultura che informava le dottrine dello yoga e della non dualità, e ci permette di rileggere la nostra stessa esperienza di vita, o il nostro Karma, alla luce della conoscenza dei Veda. Si tratta perciò di allineare e integrare noi stessi e il nostro pensiero alla disciplina filosofica che pratichiamo o intendiamo realizzare. E quindi essere infine tra coloro che hanno adempiuto, in termini attuali, ciò che era previsto per qualificare uno Yogi al passaggio successivo, della realizzazione del Sé.
Il seminario “Sacrificio e Liberazione nei Veda e nelle Upanishad” si propone come un’occasione di approfondimento e contemplazione attorno ai temi fondamentali della tradizione vedica e upanishadica. Con particolare attenzione alla Brhadaranyaka Upanishad e alla Chandogya Upanishad, si intende mettere in luce il nesso profondo tra l’atto sacrificale arcaico, che è stato il fondamento epistemologico della conoscenza sacra, fino all’espressione compiuta del percorso filosofico verso la Liberazione.
Nei testi delle Upanishad, tale conoscenza culmina nel riconoscimento del Sé, principio immutabile e conoscitore assoluto, che si realizza oltre le apparenze del mondo fenomenico. In questo senso, il sacrificio è il passaggio rituale attraverso cui il cercatore si spoglia delle sovrastrutture dell’ego per aprirsi a una libertà incondizionata, per farsi cioè simile, consustanziale all’Essere che si realizza nella conoscenza segreta, nascosta oltre l’enigma immutabile del sacrificio. Quello è il Signore supremo, a cui deve tendere la coscienza per superare il confine della morte.
Il Sè che si deve realizzare, è definito come quell’Atman che è descritto nei Veda. La conoscenza esposta nei Veda, era perciò considerata il solo supporto valido, la sola fonte di conoscenza, oltre a quella diretta, che potesse dirsi valida. La conoscenza di queste Scritture era la meditazione, la pratica e l’evidenza su cui mantenere l’attenzione, poiché alla verità, si diceva, non era necessario portare ulteriori prove. Nelle Upanishad l’Atman è dunque indicato in modo univoco e inequivocabile, come chi indica un oggetto posto davanti all’osservatore. Occorre conoscere queste istruzioni, per individuare perciò la natura del Sé.
Il Sacrificio (yajña), il Sé (ātman), e la Liberazione (mokṣa) sono parte di una visione integrata, dove la realizzazione spirituale nasce da una comprensione profonda, che si tramanda con la filosofia, atto conoscitivo della Realtà, di cui il rituale ha rappresentato il paradigma sperimentale, che è stato sublimato nella Conoscenza di Sé, indipendente, evidente, scevra da vincoli o supporti. La verità, infine deve reggersi su se stessa, nell’evidenza dell’esperienza diretta e riconosciuta.
Il Seminario si svolgerà 1 e 2 Giugno 2025 dalle ore 10 alle ore 18 circa
a Pesaro, Centro Satsang, via Togliatti 20
e su Zoom
Il costo complessivo delle due giornate è di 100 euro
approfondimenti
Nelle Upanishad, il passaggio dalla centralità del rito vedico alla definizione del Sé come fondamento metafisico rappresenta una svolta epocale. Il sacrificio, pur mantenendo la sua dignità originaria, cede il passo alla Conoscenza come via regale alla liberazione.
Le Brhadaranyaka e Chandogya Upanishad, pur appartenendo alla fase culminante della letteratura vedica, conservano profondi legami con i testi che le precedono, in particolare con i Veda (soprattutto il Ṛgveda e il Sāmaveda) e con i Brahmana, i testi rituali che elaborano il senso dei sacrifici vedici. Le Upanishad non rigettano la dimensione rituale, ma la reinterpretano alla luce di una ricerca interiore, trasformando gli strumenti del rito in elementi simbolici della Conoscenza.
Brhadaranyaka Upanishad (Yajurveda)
L’Upanishad nasce come appendice speculativa del Śatapatha Brāhmaṇa, e ne conserva molte strutture e formule. La descrizione del sacrificio cosmico del cavallo (aśvamedha), e dell’identificazione dell’uomo con il rito (puruṣa-yajña) sono ripresi e rielaborati nei primi capitoli. L’Aśvamedha è ricostruito poeticamente in chiave cosmologica: il cavallo sacrificato diventa il tempo, la bocca è l’aurora, le narici il vento, e così via, finché l’intero corpo è trasfigurato in un’immagine dell’universo, scaturito dal sacrificio primigenio, che diede vita all’intera creazione.
Anche il linguaggio rituale e la parola sacra (brahman) attraversano lo stesso slittamento semantico. L’uso del termine Brahman si evolve: da potere rituale teurgico (come nei Veda e nei Brāhmaṇa), assume un significato ontologico-metafisico, indicando il principio assoluto. Il sacrificio non è abolito, ma reinterpretato: Yājñavalkya afferma che la conoscenza del Sé è il più alto sacrificio (BU IV.4.22).
Si assiste inoltre a una decostruzione simbolica del rito. Nel dialogo tra Yājñavalkya e Śākalya (BU III.9), vengono analizzate le divinità, i canti, le offerte: tutto è progressivamente ridotto a un unico principio, indicato come il prāṇa o l’ātman, stabilito a fondamento del rito stesso. Il sapere rituale viene così subordinato alla conoscenza realizzativa.
Chandogya Upanishad (SAmaveda)
Nella Chandogya Upanishad (Sāmaveda) l’esperienza realizzativa si contempla attraverso il canto rituale degli inni (sāman), con cui si identificano i momenti culminanti della meditazione, e l’armonia simbolica tra la melodia e gli eventi naturali. Il mondo sembra costituire un perpetuo canto, un perpetuo sacrificio cosmico, che si esprime mediante l’esperienza sonora, effettiva, del Brahman.
Il primo capitolo è interamente dedicato alla meditazione sul udgītha (la sillaba “Om” cantata nei sacrifici): il suono rituale diventa oggetto di contemplazione metafisica. Il canto si trasforma da atto liturgico e esperienza diretta della natura cosmica.
Come nei Brāhmaṇa, l’universo è interpretato secondo schemi rituali: il giorno è il sacrificio, il sole è il fuoco, l’alba è l’offerta, ecc. (CU II.13). Tuttavia, queste corrispondenze sono usate per condurre il pensiero oltre la forma, verso l’identificazione con il principio unico.
Nei famosi insegnamenti a Śvetaketu (CU VI), si afferma che tutto ciò che esiste è originato dal Sat (l’essere), una nozione che riflette la ricerca brahmanica sull’origine dell’universo, ma supera la molteplicità rituale in un’affermazione di unità ontologica: “Tat tvam asi” – Tu sei Quello.
Aattraverso il racconto di Narada che va dal saggio Sanatkumāra, si mostra l’insufficienza delle scienze vediche (i Veda, i riti, la fonetica, l’astronomia) rispetto alla vera conoscenza del Sé. Il rito è una base, ma non il fine.
Le Upanishad rappresentano così una trasformazione dall’esteriore all’interiore, mantenendo radici profonde nella tradizione vedica, ma aprendola a una visione più universale e radicale della conoscenza come via alla libertà.
integrazioni e letture
Per integrare le letture della Brhadaranyaka e della Chandogya Upanishad con brani del Śatapatha Brāhmaṇa, troviamo numerosi passaggi esplicitano la trasformazione del sacrificio da atto rituale esteriore a processo interiore di conoscenza e liberazione.
Quelli che seguono sono alcuni brani, a titolo indicativo, che possono essere proposti come letture integrative oppure sviluppati in seguito:
1. Śatapatha Brāhmaṇa XIII.7.1 – Il Sarvamedha: il sacrificio totale come offerta del Sé
In questo brano, Brahman Svayambhu, l’Essere Autogenerato, decide di offrire se stesso alle creature e le creature a se stesso. Il gesto rappresenta la trasformazione del sacrificio in un atto cosmologico universale, anticipando la concezione upanishadica del Sé come realtà ultima e dell’offerta come mezzo di liberazione.
2. Śatapatha Brāhmaṇa IX.5.1 – L’Agni Vaisvakarmana e la costruzione dell’altare
Qui si descrive la costruzione dell’altare di fuoco come rappresentazione dell’universo e del sacrificio come mezzo per raggiungere il mondo celeste. L’Agni Vaisvakarmana, il fuoco universale, è il veicolo attraverso cui le offerte raggiungono gli dèi, fungendo da enigmatica connessione tra il mondo terreno e quello divino.
3. Śatapatha Brāhmaṇa XIII.3.6 – L’Aśvamedha e la liberazione da Varuṇa
Nel contesto del sacrificio del cavallo (Aśvamedha), si descrive l’offerta finale a Varuṇa come atto di liberazione. L’offerta è fatta su un uomo che rappresenta la personificazione di Varuṇa, mostrando un processo di purificazione e redenzione attraverso il sacrificio.
4. Śatapatha Brāhmaṇa III.8.3 – L’essenza del sacrificio e la sua completezza
Il sacrificio si completa con l’offerta di un dolce di riso, considerato l’essenza sacrificale di tutti gli animali. Si ottiene così la completezza del sacrificio e la sua efficacia nel mantenere l’ordine cosmico.
5. Śatapatha Brāhmaṇa IX.4.4 – L’Agniyajana e il viaggio verso il mondo celeste
Descrive il processo di meditazione dell’altare di fuoco, che viene preparato per il sacrificio. L’altare è visto come un veicolo che porta le offerte al mondo celeste, simboleggiando il viaggio dell’anima verso la liberazione attraverso il sacrificio.
E’ possibile integrare inni vedici che rappresentano le radici più antiche del pensiero sacrificale vedico e la sua progressiva interiorizzazione. Di seguito, alcuni inni scelti dal Ṛgveda, Yajurveda e Sāmaveda, con particolare attenzione a quelli che saranno poi ripresi o reinterpretati nei Brāhmaṇa e nelle Upanishad.
– Ṛgveda (Ṛgveda Saṃhitā)
ṚV 10.90 – Puruṣa Sūkta
Questo celebre inno descrive il sacrificio primordiale (yajña) del Puruṣa, l’Uomo Cosmico, da cui nasce l’intero universo. È uno dei testi chiave per comprendere la concezione vedica del sacrificio come fondamento ontologico e cosmico.
Collegamento: Brhadaranyaka Up. I.2 reinterpreta in chiave speculativa questa visione, identificando l’uomo-sacrificio con l’intero universo.
ṚV 1.164 – Inno criptico di Dirghatamas
Contiene molteplici livelli simbolici. Parla di un unico principio espresso in molti nomi (e.g. “Ekam sat, viprā bahudhā vadanti”), e allude a una conoscenza oltre la molteplicità del rito.
Collegamento: ripreso in spirito nelle Upanishad come espressione di unità dietro l’apparente molteplicità.
ṚV 10.129 – Nā̄sadīya Sūkta (Inno della Creazione)
Esprime un’intuizione metafisica e filosofica della creazione, interrogandosi sull’origine dell’essere e del non-essere, anticipando la speculazione upanishadica sull’sat (essere) e sul ātman.
Collegamento: cfr. Chandogya Up. VI.2: “In principio era l’Essere (sat eva idam agra āsīt)”.
– Yajurveda (soprattutto Śukla Yajurveda – Vājasaneyi Saṃhitā)
YV 18.66–72 – Preghiere del sacrificio finale (Puruṣamedha)
Questi mantra accompagnano il sacrificio simbolico di tutti gli esseri: è una cerimonia in cui si offre ogni tipo di essere umano, rappresentato simbolicamente, per compiere ritualmente l’unione con il Tutto.
Collegamento: la Brhadaranyaka (BU I.4) trasforma questa visione in una dottrina della coscienza universale, dell’unità dell’Ātman.
YV 36.1 – Pavamāna mantra: “Asato mā sad gamaya…”
“Portami dalla non-realtà alla Realtà, dall’oscurità alla luce, dalla morte all’immortalità.”
Collegamento: Uno dei mantra più citati nelle Upanishad (BU I.3.28), esprime il cuore della tensione spirituale tra condizionamento e liberazione.
– Sāmaveda
Sāmaveda 1.1.1 – Udgītha su Om
L’inizio del Sāmaveda si apre con la sillaba Om come udgītha, suono sacro del canto rituale.
Collegamento: Chandogya Upanishad I.1–2 dedica intere sezioni alla meditazione sull’Om, trasformando il canto rituale in oggetto di contemplazione metafisica.
Sāmaveda 3.1.1 – Agni e il fuoco sacro
Inni ad Agni, il fuoco sacrificale, celebrato come mediatore tra umano e divino.
Collegamento: riflessi nella Chandogya e Brhadaranyaka, dove Agni diventa simbolo del principio interiore (prāṇa, ātman) che consuma e trasforma.