Il Bindu. Il Genius degli antichi Romani. Trasmutazione. [Gorakh Bani versi 41 – 60]

Il Bindu. Il Genius degli antichi Romani. Trasmutazione. [Gorakh Bani versi 41 – 60]

VERSI 41-60

41. Lo yogi del sud è allegro.

Lo yogi orientale parla troppo.

Lo yogi occidentale è come un bambino.

Lo yogi del Nord è un siddha.

42. Oh avadhut, la regione orientale è afflitta dalle malattie,

Nella regione occidentale è il dolore della morte.

La regione meridionale si rivela un’illusione.

Nella regione settentrionale vivono i siddha Yogi.

43. I veri maghi incantano l’ego,

E si cibano delle offerte raccolte senza rimorsi.

Mendicano nella città detta del “tre e mezzo” [il corpo].

Questi avadhut si muovono nel mondo di Siva.

44. Vero padrone di casa [del corpo] è colui che conosce la sua casa [il corpo].

Trattiene dentro ciò che tende a uscire fuori.

Sempre equanime verso ogni cosa, attraversa l’illusione.

Un tale custode della casa dovrebbe essere chiamato la forma del Niranjan.

45. Vero padrone [di sé] è colui che controlla il corpo.

Nel suo cuore, abbandona l’illusione.

Mantiene il corpo nella sua perfezione naturale [sahaj]

Un tale custode della casa è come l’acqua del Gange.

46. I puri immortali sono al di là del peccato e della virtù.

Sono al di là del sattva, del rajas e del tamas, nel vuoto.

Ricordano il Sabad, so-ham e ham-sa.

A loro spetta la meta più alta e infinite siddhi.

47. Differente è colui che purifica solo il suo corpo.

Invertendo il suo respiro lo yogi accende il fuoco.

Non rilascia il seme neppure nel sonno.

Costui dovrebbe essere considerato Reale.

48. La mente è lo Yogi e il canto è il suo tempio; i cinque elementi sono la veste.

La grazia è nelle sei posture.

La saggezza è la gruccia e la ragione sono i sandali di legno.

Il pensiero è il bastone.

49. Con il movimento, la Luna cala.
Con l’immobilità, il fuoco di Brahman si accende.

Con l’equilibrio [inclinazione] si fissa la goccia di Mercurio,

Questo fa sì che il corpo permanga a lungo quanto la terra.

50. Questa stessa mente è Sakti, questa stessa mente è Siva.

Questa stessa mente è l’anima dei cinque elementi.

Colui che controlla la mente e rimane nell’unmani,

Può parlare dei segreti dei tre mondi.

51. Oh avadhut, controlla il respiro e rimani nell’unmani

Allora, squillerà il corno del suono non causato.

Nel cerchio del cielo risplende una luce brillante.

Dove non splendono né la Luna né il Sole.

52. Inspirare ed espirare dovrebbero essere il tuo cibo.

Chiudi le nove porte.

Fase dopo fase rinnova il tuo corpo.

Quindi padroneggerai lo yoga dell’unmani.

53. O avadhut, il respiro dovrebbe andare al sahasra nāḍī,

Allora una miriade di suoni si sollevano.

Il respiro assorbe i raggi di settantadue Lune,

Allora la luce primordiale risplende.

54. Nella casa della notte senza luna (amavasya), la Luna brilla,

E nella casa della luna piena (purnima), si alza il Sole.

Nella casa del puro suono (nad), il bindu tuona,

E suona il corno silenzioso.

55. Nel nad rovesciato c’è il bindu trasformato.

Nella casa del vento (vayu), riconosci la vita!

Fluisce verso il basso dal cerchio vuoto.

Unisci la Luna e il Sole e rimani nell’unmani.

56. Oh avadhut, nella prima nāṛī [susumna] il suono (nad) tintinna,

E nella nāṛī infuocata, soffia.

Nella nāṛī fredda, il bindu abita.

Pochi yogi lo sanno per esperienza.

57. Nel respiro ascendente il Sole brucia

Nel respiro discendente è la Luna.

Lo yogi li ritarda entrambi.

Dove dimora il bindu, c’è la vita.

58. Tanti vengono, tanti vanno

Tanti chiedono l’elemosina, tanti mangiano,

Tanti si siedono sotto un albero.

Ma con chi Gorakh potrà parlare della sua esperienza?

59. Oh studioso, tu che vedi solo ciò che hai letto – prima vivi, quindi comprendi l’essenza.

Raggiungi l’altra riva con l’azione.

Gorakhnath dice: a chi devo dimostrare l’esperienza?

C’è una luce in ogni cuore, che gli animali non possono vedere con gli occhi.

60. Oh avadhut, con il Sabad estrai il diamante

dalla miniera della lingua.

Fai il bene in mezzo al male.

Allora il mondo intero sarà tuo discepolo.

COMMENTO

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Il Bindu

“Alcuni … si perfezionavano (siddha) nel sentiero alchemico (rasa-marga), altri si realizzavano mediante l’ hatha yoga, ed altri ancora perfezionavano se stessi attraverso le pratiche tantriche o impiegando i fluidi sessuali (bindu-sadhana)”. In ciò consiste la “caratteristica distintiva dei Siddha”. Laddove la sintesi tantrica generalmente ignora l’alchimia e confina l’ hatha yoga in un ruolo secondario nel quadro della sua gerarchia delle pratiche, attribuendo invece enorme importanza al culto mediante l ‘uso di fluidi sessuali reali o sublimati, le tradizioni dei Siddha privilegiano senza eccezione le tre forme di pratica complementare. Il principio-guida rimane quello di controllare un universo che è concepito come un corpo, il corpo della divina consorte di Siva, il corpo della propria consorte, e l ‘aspetto femminile nel proprio corpo. Nel gioco, tipico dei Siddha, delle analogie tra microcosmo e macrocosmo, e secondo le gerarchie analogiche delle sfere interpenetrantisi dell’ essere universale, questo corpo è insieme divino, umano ed alchemico, e va perfezionato mediante la pratica yogica, alchemica ed erotico-mistica.

Gorakh, che quasi tutti gli elenchi dei lignaggi definiscono discepolo di Matsyendra/Mina, segue le orme di questi. Sicuramente egli abbracciò l’aspetto hathayogico della pratica Siddha, sviluppandolo ulteriormente, ma la sua relazione con i rituali erotico-mistici e con l’alchimia appare più ambigua. Nonostante il fatto che tra il Gorakh storico e Matsyendra vi siano non meno di tre secoli, un notevole numero di leggende descrive la liberazione di Matsyendra, da parte di Gorakh, dal la schiavitù sessuale in un Regno delle Donne nell’ Assam. Come dimostrerò in un capitolo successivo, si tratta del l’espressione, in forma narrativa, delle riforme effettuate da Gorakh nell’ambito della tradizione dei (Nath) Siddha, da cui epurò gli elementi erotico-mistici in favore di un’enfasi quasi esclusivamente hathayogica. [ da “Il corpo alchemico. Le tradizioni dei Siddha nell’India medievale” di David Gordon White]

I versi selezionati del Bani, aprono proprio con una breve disamina delle scuole tantriche che nel periodo di stesura del testo avevano evidentemente già stabilito la loro toponomastica e le caratteristiche distintive. I punti cardinali, infatti, furono e sono rimasti a distinguere le scuole tantriche che in varia misura hanno accolto e messo a frutto, almeno teoricamente, la tradizione dei Siddha: la ricerca e l’elevazione del Seme immortale, deposto nel corpo mortale. La Perla da recuperare nel paese straniero, la pietra filosofale nascosta nella pietra volgare, ovvero, la sfida che ha appassionati maghi, teurghi, alchimisti e gnostici del mondo antico. Il lavoro di estrazione e sublimazione del prezioso e fuggevole elemento, si connota con l’andare del tempo dell’ossessione per la ricerca del potere. Il potere diventa l’elemento chiave, la sola prova provata del raggiungimento dello scopo. Così come ridondante diventa l’accanimento rituale e la successione di prove iniziatiche, tutti segni di una potenza che sembra sfuggire tragicamente dalle mani del suo operatore, ormai avviluppato nella sua stessa rete di ideazioni. Gorakh è a conoscenza di questa decadenza e avverte brevemente il lettore che tutte le tecniche e le elaborazioni raffinate che gli alchimisti e i tantrici hanno strutturato non si riveleranno che fonte di fallimento. Il Nord, in questo senso, suona anche come un richiamo alla Stella Polare, a seguire la via dritta, il principio ispiratore che egli stesso aveva indicato, in origine. Il punto più alto, in cielo, è anche figurativamente il punto “bindu” in cui il suono della creazione, A-U-M, si riassorbe, nell’Uno incausato. Lì giungono i veri Siddha, i veri alchimisti.

All’inizio era il Nulla, dicono i testi sacri. Questo è Parabrahman, Parasamvit, Sat Cit Ananda, privo di attributi, di forma e di dualità. Al di là dell’essere e del non essere, esisteva, come tutto ciò che esiste (e non esiste).

Poiché esso esisteva, deteneva in sé, in quanto esistente, un’energia, o un potenziale, che nella parola Brahman è implicito: espandersi. Brahman deriva dalla radice Brh, espandersi.

Brahman è uno e immobile, come Shiva è assiso solo, prima della creazione, ma detiene in sé il potere di creare ogni cosa, di espandersi in infinito. Essendo l’unico e il solo, è già infinito, non potendoci essere altro a stabilire il suo limite: è potenziale espansione infinita nell’immobilità dell’essere che contiene in sé ogni possibile. Questa potenza vibra. Le definizioni che distinguono il suo stato inerte e i diversi stati vibrazionali e manifesti, sono solo distinzioni teoriche. Questa dynamis è inerente al Brahamn stesso, è inerente il suo stato naturale. La vibrazione è per sua natura suono. Dunque Brahman “canta”, suona. E’ un suono ben preciso, unico, che sarà origine del vibrare in tutto: AUM. Qui siamo allo stadio supremo dell’energia, in cui Shakti, la sua potenza, è Para Shakti: nulla è creato, solo la vibrazione emana, senza differenziarsi in forma, dal Brahman assoluto, che li contiene entrambi.

Nel momento in cui si postula la vibrazione si stabilisce un elemento di emissione. In qualche modo, una dualità. C’è un soggetto e c’è il suono che emette.

L’emissione sonora è effettivamente emissione luminosa, frequenza, che implica l’attivarsi di una coscienza, dove coscienza è luce: la possibilità di distinguere un oggetto è metaforicamente “luce”, poiché un suono è distintivo, un suono può guidare, orientare, nominare, evocare, suscitare sentimenti, espressioni, forme primordiali di oggetti e riflessi, differenziazione, nomi, proprietà.

La creazione è un evento sonoro.

Dal Supremo Signore, pieno di essere, coscienza e beatitudine, dotato di Kala (contenitore del tempo, o di tutte le suddivisioni potenziali), emerse l’energia sonora. Da essa scaturì il Nada (suono) e dal Nada il Bindu, che è manifestazione dell’energia suprema, che a sua volta si divise in tre parti: bindu- seme, nada – suono e bija -fonema.” [in “La ghirlanda delle lettere” di Arthur Avalon, citato come “testo tantrico” non specificato.]

Dunque dall’energia sonora che vibra di moto proprio dal Brahman supremo si manifesta un terzo elemento, il Bindu.

Bindu significa goccia, è il trasudare di questa emanazione divina, luogo seminale del mondo, la scintilla che scaturisce dalla frizione dei poli dell’onda sonora, l’emissione che, come nel concepimento, fuoriesce come il seme del mondo vivente. Nada e Bindu, vibrazione e espressione, non possono mai essere oggettivamente separati. Il Bindu porta nella materia, che si addenserà per raffreddamento, il seme della coscienza divina. Questo, si situerà nel Muladhara, come a dire, nel fondo cieco del corpo vivente, di cui dirigerà la formazione, l’evoluzione e i movimenti della coscienza individuata, restando invisibile. L’essere vivente avrà forma e distinzione, sarà e si percepirà cosciente, ma, a meno di intraprendere il percorso yogico con successo, mai sarà in grado di cogliere il seme dell’Immortale che è all’origine del suo vivere individuale. Quel Bindu, perciò, è il Tutto, contenuto inconsapevolmente nella singola parte.

Bindu e Nada sono perciò le forme metafisiche – impersonali – di Shiva e Shakti. Nella fisica questo rapporto è stato identificato con la dinamica tra onda e particella.
Il suono Nada, che è onda, si eclissa o si addensa, nel bindu, particella. E’ dell’onda stessa il dinamismo che permette questa trasformazione. Nella sillaba Om il Bindu è rappresentato graficamente dal punto, anusvara, in cui il suono termina nella nasalizzazione. Ad esso corrisponde lo stato che la Mandukya Up definisce il Quarto, Turiya, l’osservatore immobile, in cui il suono dell’Om ritorna allo stato senza suono e senza forma, all’assoluto.

Nello Yoga questo stato è detto Unmana, oltre la mente. Questo stato, che si chiamerà Samadi, Nirvana, Mukti, è lo scopo perseguito dagli Yogi, in cui il Bindu è emendato delle condizioni contingenti della sua espressione mentale (e quindi sonora e creatrice) per rifulgere come unità e pienezza, nel suo assoluto potenziale intatto.
Fino a che punto gli yogi Nāth siano una denominazione tantrica è una questione aperta. Il loro stile di yoga si concentra certamente sugli aspetti occulti del corpo che vengono imbrigliati per lo scopo ultimo di diventare un “secondo Śiva”. Nonostante il fatto che l’haṭha associato ai Nāth, contenga una serie di posture fisiche nel suo repertorio testuale, il vero problema qui non è l’impegno con il corpo fisico ma con i suoi costituenti “sottili”: i cakra, i condotti di l’energia sottile (nāḍīs), l’elisir (amṛt) e ciò che i jogi chiamano “il fuoco del brahman” (brahmāgni), che è identico a tutti gli scopi pratici con ciò che altrimenti è generalmente e meglio conosciuto come kuṇḍalinī.

L’intero scopo della Nāth sādhanā non risiede nella capacità di assumere posture corporee ma nella padronanza dei poteri occulti nascosti nel corpo, proprio come la visione ideologica del mondo si basa sulla convinzione che il corpo umano (piṇḍ) rappresenti un equivalente telescopico dell’universo esterno (brahmāṇḍ): il microcosmo è analogo al macrocosmo. Questa è una nozione esoterica fondamentale, mantenuta in un certo numero di visioni del mondo religiose tradizionali, e in questo caso specifico si pone anche come uno sviluppo particolare del precedente concetto Upanishadico di bandhu (“relazione”), il quale concetto include anche l’equazione ontologica tra ātman e brahman.

I Nāth insistono sul fatto che conoscere e padroneggiare il corpo umano, specialmente nei suoi aspetti occulti, equivalga alla padronanza dello yoga, che porta al potere, le siddhi, e in ultima istanza all’immortalità….. Il testo sanscrito Gorakṣa Śataka (v.13) chiede retoricamente: com’è possibile ottenere successo nello yoga a meno che non si conoscano i costituenti corporei: cakra, “canali” (nāḍī) e “guaine” (vyoma) dentro il corpo? Il corpo umano esoterico (“sottile”), il fulcro principale di Nāth sādhanā, è una replica analogica dell’universo esterno. Come dice Gorakhnāth: “Dentro l’uno c’è l’infinito, e dentro l’infinito c’è l’uno. / Dall’uno viene prodotto l’infinito. / Quando l’uno è sperimentato dentro, / L’infinito è contenuto nell’uno”. Il cosmo è rispecchiato e presente all’interno del corpo umano sia negli aspetti fisici che metafisici. Il corpo contiene repliche interiori non solo di fenomeni mondani, come fiumi, montagne, luoghi di pellegrinaggio e luminari astronomici, ma anche i celesti e regni demoniaci, dei, semidei e demoni e i rispettivi domini. [la parte in corsivo è da “Sayings of Gorakhnath Annotated Translation of the Gorakh Bani” di Gordan Djurdjevic, Oxford Un.Press, 2019]

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Il Genius degli antichi Romani

L’analogia tra Macrocosmo è Microcosmo è concetto comune delle tradizioni ermetiche anche in Occidente, fondato sulla Tavola Smeraldina di Ermete: “Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli della cosa una”. Non è altrettanto facile trovare nella percezione occidentale il concetto del Bindu, sebbene sia evidente, per mediazione dell’alchimia indiana dei Siddha, che si tratta di ciò è detto il Mercurio dei Filosofi.

In un testo alchemico del 1526, il Gloria Mundi, leggiamo che la Materia prima dei filosofi “è familiare a tutti gli uomini, giovani e vecchi, si trova nel paese, nel villaggio e nella città, in tutte le cose create da Dio. Eppure è disprezzata da tutti: ricchi e poveri la gestiscono ogni giorno, è gettata in strada dalle domestiche, i bambini giocano con essa”.

L’enigma rappresentato dal Bindu e dalla sua opera misteriosa sembra ritornare, come deve essere, piuttosto nelle scienze naturali dell’epoca moderna, dove risorge come un non-detto, dopo un lungo oblio, in cui si era perduto nella ricerca di una pietra filosofale che era notoriamente nascosta sotto gli occhi di tutti.
Le osservazioni di Charles Darwin fecero conoscere al mondo una potenza che opera in natura, nella lotta per la vita, autopoietica e selettiva, che decreta il successo riproduttivo e di adattamento di una specie rispetto a un’altra, e il suo mantenimento. In un mondo di sistemi relativamente chiusi, in cui si espressero le osservazioni del naturalista, le specie, come le razze, si potevano intendere per dati oggettivi, da potersi indicare con certezza. Questo causò l’abuso e le derive razziste, coloniali e infine economiche del “darwinismo”. Ma se prendiamo le sue osservazioni nella loro potenza pura e effettiva, in realtà, vediamo che esse minavano proprio quella certezza.
Una forma vivente, per risultare la più adatta in base al principio dell’evoluzione, cioè in base alla selezione delle caratteristiche più efficaci, deve mutare le sue caratteristiche, ibridarsi e contaminarsi con caratteri e abilità prima sconosciuti o estranei, per adattarsi a mutate situazioni ambientali. Ma quando le caratteristiche della razza sono così mutate, adattandosi, per permettere la sua sopravvivenza: Chi è sopravvissuto? E’ il quesito della “Nave di Teseo”, che nella sfera vivente acquista una imponderabile drammaticità. Dramatis Personae.

La genealogia delle mutazioni di specie racconta di una “Vita” che propaga se stessa a discapito delle forme che via via ha assunto, per concepirne di nuove e sempre più adatte, e cancellando quelle decadute. Perciò, l’osservazione della natura, di cui il filosofo ermetico è l’assiduo investigatore, racconta un Esistente che abita le forme, senza alcun attaccamento ad esse, e che persiste, modificandole a sostegno del suo propagarsi, in un turbine di eros e morte, in cui tutto si muta e si crea a nuova vita. L’intelligenza di questo mutare sfugge alle previsioni degli individui che nella specie abitano, il cui singolo destino è segnato, ma la vita si spinge avanti a trovare forme sempre più sofisticate e adatte. Con intelligenza invisibile creerà nuovi arti e nuovi organo di senso, o cambierà il raggio d’azione degli esistenti, espanderà da un nucleo “senza organi”, organi nuovi, dettati dal desiderare cose che non ha ancora organi per percepire o afferrare. La vita produrrà sé stessa intuendo la propria forma successiva e il proprio raggio percettivo, che solo con il nuovo corpo le si renderà disponibile. Tutto questo lavoro di adattamento e selezione avviene solo per via riproduttiva, solo per mezzo del Seme, che tutto prevede e manifesta, distruzione e creazione perpetua.

Carol Kereniy individuava nel dio greco Dionsio “l’archetipo della vita indistruttibile”, quale forza oscura che si muove in seno alla natura, spingendo i viventi a unirsi e lasciarsi guidare dall’entusiasmo, dal vino e dalla sfrenatezza, fino alla crudeltà. Durante i suoi riti periodici, la gente abbatteva i confini di classe sociale e di clan, si mescolava, abbandonava il proprio ruolo e vagava in stato di ebrezza, ritornata selvatica. E’ il Dio che li muoveva a compiere azioni altrimenti impensabili. Questa è la “follia” dionisiaca, che è tutt’uno con il dio stesso, “uno stato in cui le forze dell’uomo sono intensificate al massimo grado, e il conscio e l’inconscio trapassano l’uno nell’altro come attraverso una breccia” [Kereniy]. Nietzsche, che ne fu un cantore immaginifico, intuiva “un turbine afferra tutto ciò che è spento, marcio, rotto, appassito, lo avvolge roteando in una rossa nube di polvere e come un avvoltoio lo porta in alto. I nostri sguardi cercano confusi ciò che si è dileguato, poiché quello che vedono è come salito alla luce dorata da uno sprofondamento, così pieno e verde, così rigogliosamente vivo, così appassionatamente sconfinato…” [in “La nascita della tragedia”]

Filostrato ha affermato che “Dioniso possiede delle apparenze multiple.” E’ un dio sempre “altro”, ma anche “altrove”. Incessantemente si trasmuta e si trasfigura poiché è egli stesso a imprimere la dinamica della metamorfosi. Il Coro delle Baccanti invoca la sua teofania in forma animale: “Appari toro o drago di molte teste…o fiammeggiante leone!”. Malgrado l’antropomorfismo ufficiale, con cui spesso è raffigurato, è polimorfo e appare in svariate teofanie: uomo barbuto, efebo sorridente, toro, serpente, ecc. In un affresco pompeiano appare come Dioniso – grappolo d’uva. Come il vino, infatti, è duplice: può essere infinitamente dolce, ma anche estremamente terribile. La sua presenza tra gli uomini può prendere due forme: l’unione gioiosa che supera il limite fra l’umano e il divino oppure la caduta nel caos, nella confusione, nella follia sanguinaria.

[in “Sguardo di Dioniso e enthousiasmòs dionisiaco” di Filippo Sciacca]

Queste immagini suggeriscono la natura ferina e infera, la natura selvaggia, che come il serpente, che è forma della vita primigenia, è totalmente altra dall’umano ma che nell’umano è contenuta e talvolta manifesta, affinché – perdendo le consuete caratteristiche specifiche, anche nella natura umana si apra la strada per diventare “altro”. Questa umanità toccata dal Dio più misterioso non si regge in piedi, letteralmente, si accascia ubriaca, gattona, striscia come un serpente, si accovaccia per accoppiarsi. Così come si inginocchia chi supplica, mimando la propria regressione, ai piedi della divinità a cui chiede di essere toccato, scosso, rimesso a nuovo e guarito. La benedizione si chiede e si riceve in ginocchio, è un seme che si deposita nella supplica che è la disperazione dell’io.

Dalla coscia di Zeus nasce Dioniso. Delle ginocchia (genua), non stupisce che, anche quando ormai erano perdute anche le tracce degli arcaici riti per Dioniso, risuonasse la parentela etimologica con gli organi riproduttivi. Le ginocchia, i genitali, il genoma, i geni, la genealogia, la genitura, il genio, l’ingegno: tutti questi termini sono accomunati da una solo progenitore, il Genius, il Dio che abita la natura vivente, nella forma specifica della persona vivente. E la sua “sposa”, la Iuno o Giuno, la grande Dea.

Nella natura “liberata” dalla frenesia dionisiaca, di eros e di morte, il Genius/Presenza di Dioniso, che è l’ebrezza, abita le ginocchia di tutti indistintamente, aprendo vie misteriose all’evoluzione della specie e della razza, non solo biologiche, ma certamente anche culturali e filosofiche.

Il Genius che arriva a incanalarsi nelle vie riproduttive consuete, genitali, quelle del matrimonio, si incarica di consegnare la sua preziosa potenzialità vivente nella propagazione lineare che assegna un genotipo, un’ereditarietà dei caratteri, uno status sociale, una dimensione definita e identificata, verticale: la nascita di una persona, la singola evoluzione di una linea genetica ben precisa, che trascorre dai genitori ai figli, nel seno della stessa famiglia.

Della genitura gli antichi avevano una visione certamente molto elevata. Per gli indiani vedici erano gli antenati, i Padri che si perpetuavano in una immortalità che non era ancora la reincarnazione dell’individuo, ma la continuità del proprio stesso essere molti, nella stirpe. Così come Prajapati, il creatore era nel nome stesso soltanto il “progenitore”, da cui tutti gli esseri erano discesi per sacrificio del primo. Quel primo sacrificio si trasmetteva e si ripagava, come un debito, permettendo alla stirpe di proseguire, e quindi a lui, come agli antenati, di non morire. Per la mentalità di quel mondo arcaico, nel mediterraneo come in oriente, ciò che conta è questo mondo, insieme alla gloria e alla stirpe che sopravviverà di sé, e quindi dei propri avi. L’aldilà è glorioso per gli Dei e per gli Eroi, ma per i mortali “è privo di luce”.

Genius è anche la radice di Gens, famiglia, gente, stirpe del Genius che è stato capostipite, che è ereditato dal capofamiglia, il cui Genio vine onorato dai suoi famigliari, e invocato dalla sposa prima della notte nuziale, perché discenda presso il Lectus genialis, il letto nunziale. Alle spose si esortava: “Invocate i Genii dei vostri mariti”, genialis è sinonimo di fecundus, e sta a designare la forza e il potere specifico del maschio, la sua facoltà di generare. Il Genius è la vita, la capacità riproduttiva e finanche la fortuna della famiglia. Esso si presenta nella forma maschile e femminile, il Genius e la Iuno, che erano spiriti tutelari pertinenti al clan famigliare, trasmessi in linea patrilineare, il Genius e matrilineare, la Iuno.

Giunone, nome della grande dea moglie di Zeus, era quindi il nome dell’omologo femminile del Genius, a indicare lo spirito generativo della donna, come il genius lo era per l’uomo. A Iuno Sospita o Lucina, si rivolgevano le puerpere per assicurarsi un felice parto. Il Genius è perciò insieme alla Iuno, la coppia tutelare della fecondità. Genius è quel dio «cuius in tutela ut quisque natus est vivit». E così la festa del Genio è il compleanno dell’individuo, il dies natalis, che quindi si celebra con gli onori festivi. Veniva ritenuto uno spirito buono, talvolta rappresentato come un essere alato, simile a un angelo custode, ma popolarmente e in origine sicuramente associato alla forma del serpente, l’Agathos Daimon, il demone benevolo, che è simbolo di continuità e protezione della stirpe e della casa. Iuno Sospita o Lucina, aveva invece una forma ofidica in una caverna alle porte di Roma, dove veniva onorata con offerte annuali.

Come ogni casa aveva il proprio Genio del Lare, si allargò la stessa visione ai luoghi (Genius Loci); la città di Roma aveva il suo Genio, che era sia maschio che femmina: “Genio urbis Romae sive mas sive femina”, così si riconobbe un Genius per le province, i collegi, le unità militari, e per lo stesso popolo romano. Il Genio dell’imperatore vivente divenne oggetto di culto pubblico con Augusto. Proprio con la divinizzazione del Genius dell’imperatore vediamo la trasformazione del “serpente” in aura, splendore di luce del soprannaturale che porta la personalità individuale a coincidere con la condizione divina. La radianza del calore innato, sublimato nel Genio individuale, che si manifesta nel suo luogo di elezione, la testa, in Nume. Il nome di Genio diventa eponimo della divinità intrinseca e incarnata.

La sede propria del Genius non è nelle ginocchia e nemmeno negli organo riproduttivi, ma in tutti i casi è localizzata nella testa. E’ andando “alla testa” che il vino induce l’ebrezza, come nella follia, che è uno stato in cui un Genius sconosciuto prende il sopravvento sull’io cosciente.

E’ nella testa che il seme è contenuto, come sono piccole teste i semi delle piante, le fave, i chicchi di grano, e le oscilla (piccole facce, da os, volto), sfere a forma di testa che si appendono come dono votivo alle fronde degli alberi in occasione delle sementivae feriae, le feste della semina, o del dio Bacco. I morti sono semi, chicchi, acini d’uva, le cui teste a grappolo, indistinte, vegliano nel seme e custodiscono il loro frutto futuro.

Toccando la testa si onora il Genius, e con il vino lo si riscalda, con il cibo e i piaceri si “indulge” ad esso, come una forza invisibile che si nutre di libagioni attraverso la bocca del padrone di “casa”. Il furore e l’ispirazione, sono forme in cui l’uomo appare posseduto da uno spirito estraneo, dissociato dalla coscienza ordinaria: il Genius.

Con la testa si annuisce, con un cenno del capo si dà il proprio assenso automatico: è il Genius che risponde alla domanda o alla situazione, affermativamente, che concede.

La protezione della testa, con l’elmo in battaglia, come con il turbante per gli yogi, o il velo durante la celebrazione del matrimonio, è la protezione dell’anima vitale che la abita.

Quando il Genio si manifesta pienamente nel suo luogo proprio, la testa si infiamma di una luce che è come fuoco. La fiamma avvolge la testa o uno splendore simile ad essa, così dagli occhi sembra uscire una luce, lo sguardo è fiammeggiante. Il furore o sacro fuoco erano del poeta ispirato dalle muse, come sarà del mistico l’infiammarsi del divino, fino agli esempi a cui l’iconografia assegna per tradizione un’aureola dorata che avvolge la testa dei santi e gli esseri spirituali, come la corona d’oro raggiante che si pone sulla testa dei re. Per i Brahmana, la testa dell’iniziato è circondata dalle fiamme. Questa è la dignità degli eletti, per così dire, gli illuminati.

Il Genio immortale deve risalire dalla condizione inconsapevole della “follia dionisiaca” (delle ginocchia) che abita tutto il creato decretandone la morte e trasformazione in natura. Certamente va a incarnarsi nel Genio della stirpe, nei Pater/Mater Familias perché la sua immortalità ritorni con le generazioni, ma per rifulgere come divinità “propria”deve splendere dalla sua vera dimora in piena coscienza di sé, la testa.

Ecco quindi l’anima dell’imperatore defunto che sale al cielo, nella forma di una fiamma, e diviene una stella caudata che si innalza trionfante sulla morte, la stella cometa. Nel mondo romano è di alcuni grandi personaggi eroici o di grande fama, la fiamma che viene vista emergere dalla testa, già nell’infanzia, o molto prima delle loro gesta storiche, a preannunciare la gloria futura, o a presagire il compito a loro assegnato. A questi eletti il Genius parla direttamente, mostra prodigi, fa scoprire segreti e preconizzare eventi passati e futuri o lontani, permette di vedere l’invisibile e creare ciò che ancora non era stato creato, fino a trasformarne il corpo stesso: prerogative del divino, quelle che gli yogi chiamano Siddhi.

Il Genius è quindi doppiamente associato alla Stella: come sigillo del destino, che come tale può essere divino e puro o impuro e funesto, e come apoteosi della vicenda del Genio immortale che ascende al cielo in gloria immortale. Le stelle e i pianeti erano concepito come teste o volti, os sacrum, volti sacri. E quando perciò la testa di un tale Genio sale al cielo, radiosa di luce, egli è ormai un dio, un numen.

Non sfugge la coincidenza lampante con la dottrina di Gorakhnath sul “padrone di casa”, colui che sa trattenere e fissare in alto il Genius o il Bindu. Solo colui che ha dominato la tendenza discendente alla dispersione del seme, può essere davvero detto “Genius”, Pater/Mater Familias. Il “Padrone di casa” di cui parla Gorakh, è una locuzione che si può tradurre anche come Pater Familias e quindi Genius, dove la famiglia è il corpo stesso, le diramazioni e flussi (pro)creativi che con il bindu discendono, come ereditarietà, che con il bindu si orientano a creare nuova espressione di sé.

Per i molti, per coloro che vivono come animali, il seme è disceso ai genua, alle ginocchia, su cui si muovono come quadrupedi, animali che la Zoè, la vita indistruttibile, adopera e sacrifica a sé sola. Il greco Eraclito ammoniva: “la medesima cosa sono Ade e Dioniso, per cui impazzano e si sfrenano”, essi infatti sono così destinati alla morte, la loro frenesia è frenesia di morte, che ridistribuisce la vita sacrificando nell’incoscienza, come gli animali che divora, per similitudine, la menade estatica.

Per il Grasta, il capofamiglia dell’India tradizionale, il matrimonio è la disciplina che fa di lui un bipede, eretto, benedetto dagli dei, perché sottomette i suoi impulsi al disegno semi-divino dei Padri della stirpe e ad essi sacrifica con l’educazione dei figli, perciò la sua vita è realizzata nel sacrificio che è abnegazione e assenso (di cui si è parlato in precedenza, a proposito del sacrificio).


La condizione regale, quella che solo i “re” e gli eroi dello yoga (anche in sanscrito, Vir) possono ambire, è di chi ha portato a brillare, realizzata, la divinità che in lui era ospitata come forza cieca e sacrificio ancestrale, e la cui espressione creatrice non viene dai lombi, ma dalla testa: il suo seme ridiscende come Amrita, immortalità. E’ immagine del Genio Immortale, fuori di retorica, che gli antichi attribuivano a coloro che qualcosa di immortale avevano lasciato come eredità sulla terra, come Dei. Come Dei sono gli Yogi. Colui che abbia realizzato la sadhana, può dunque essere chiamato propriamente immagine del Niranjana, può essere chiamato “divino”, Reale. [versi 44 e 47]

Gli elementi per dare riscontro esperienziale alla visione esoterica e dello yoga sono perciò già stabiliti nella cultura antica e noti a tutti. Ciò che la cultura sembra avere dimenticato è sepolto nel ventre della lingua madre, come conoscenza perenne. Il suo Genio nascosto, lo parliamo e lo diciamo ogni giorno con le nostre parole, che nascondono il Seme della conoscenza. Ma questo è un altro mistero, immagine speculare del primo.

L’immagine del seme, che è ugualmente presente nei tre livelli della generazione, si manifesta come volto divino nella testa, come nell’immagine del Mukalingam. Dello Shivalingam infatti si dice che sia diviso in tre parti, quella sepolta sottoterra, invisibile, che è Brahma, il demiurgo; quella che emerge dal terreno e arriva alla yoni, è Vishnu, il supporto del mondo; la parte infine che emerge oltre la yoni, a erigersi come Padre del mondo è propriamente il volto di Shiva, che spesso vi è raffigurato. Come volto è il Numen, il volto del simbolo sacro, che è anche il nome, la proprietà, o la divinità che delle tre parti è l’insieme, Shiva. Perciò nei giorni di celebrazione, come Shivaratri, si usa decorare il Lingam aniconico con il volto divino, perché in quella notte santa il Dio si è mostrato nella festa, nella benedizione che ha investito i devoti.

La forma di Ermes, Maestro dei Misteri, in antico è rappresentata da una colonna squadrata, detta Erma, recante una testa alla sommità e degli organi genitali nel mezzo. Talvolta queste colonne erano poste sulle tombe, a rappresentare ciò che alla morte sopravviveva, il soffio divino che aveva abitato il corpo. Di Ermes era il ruolo di psicopompo, la guida delle anime che devono attraversare i potenti fiumi dell’aldilà. “Come il Gange”, dice Gorakh, “è tale custode della casa” [verso 45], come il custode della tomba, è colui che come il grande fiume sa portare l’anima alla dimora che le è propria.

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Trasmutazione

Questa digressione romana ci serve a mettere in fila elementi che sembrano essere stati il comune sentire su alcuni aspetti vitali del sacro e della conoscenza, e che linguaggi differenti hanno interpretato nel proprio codice e con la propria voce, e che quando sono riletti per risonanza interna, sono evidenti, e non possono più apparire estranei e esotici. Devono risuonare come il Sabad nelle vene di chi studia la materia nella forma fluida che è propria, sottile. La visione grossolana divide in sistemi apparentemente razionali, che si mostrano culturalmente identitari, fissi e statutari, mentre la visione sottile è multiforme, fluida, adattabile, si scopre già pervasiva del proprio pensiero come intuizione e seme. Il sottile parla tutte le lingue, è il soffio intelligente che scorre nelle nadi del mondo. Solo la forma Suprema però, di cui non si può dire nulla, si manifesta in servizio e testimonianza, come il fiore emana il suo profumo, il sole la luce, per suo stato naturale: nessuno ha necessità di spiegare l’esperienza, se l’esperienza è conosciuta, dice Gorakh [verso 48]. Situarsi in essa è sì alzarsi al cielo, fuori da “mondo”, ma insieme è osservare un solo continuum veicolarsi in tutte le forme naturali, minerali, animali, linguistiche e semantiche; questo al di fuori è al centro di tutto e di ogni cosa.

Le tre fasi, Stula (grossolana), Suksma (sottile) e Para (suprema), sono stadi della materia, della parola e della trasmissione della conoscenza, come della coscienza stessa.

Perciò il Jivan (che potrebbe essere la radice indoeuropea di Genius), il vivente, deve attraversare le stesse trasformazioni, consapevole di essere materia volatile, come Mercurio, il Bindu imprendibile materia etera del lavoro di alchimisti e Yogi.

Il lavoro è “fissare”, stabilizzarsi nel luogo/stato che è proprio (in questo senso Sahaj, Verso 45), dove può manifestare la condizione naturale, che è superiore, divina. Se il Vedanta asserisce che Atman e Brahman sono uno, Gorakh dice, Jivan, Atman e Brahman sono uno. Nel corpo vivente, lo yogi deve realizzare la divinità. Lo yogi deve diventare il Dio vivente. Il “demone” o il “genius” che abita e vive in ciascuno è quel Dio vivente.

La natura del Jivan è Bindu, è psiché, o prana, e si sposta con la velocità e la dinamica del vento, è la natura di tutto ciò che si muove e si trasforma: Vayu, che è il vento e il pensiero. Il calore lo solleva con il desiderio, il furore, l’ispirazione, la passione, ma così come lo surriscalda, lo può bruciare. E il freddo lo può spegnere e condensare, far discendere in depressione e apatia, ristagnare inespresso e sterile, dove cercherà di nuovo il calore a sollevarlo. Chi conosce la propria natura come fatta di Vayu, vento, di spirito, è già a un buon punto sulla via dello Yoga [verso 55], perché ha compreso la Materia Prima della sua Opera .

Qual è, dunque, la sua natura e dove si trova? Gorakh dice nell’ “inclinazione” [verso 49]. Dove forse ci saremmo aspettai di trovare lo sforzo o la ricerca dell’equilibrio, e sebbene la traduzione non sia del tutto affidabile, sembra invece comparire la maniera in cui gli astri, la Stella, come il Genius, operano nell’essere vivente: astra inclinant. Propendono, fanno discendere, da cui l’idea che un (in)flusso faccia accadere per essi degli eventi concreti. Di nuovo, ci soccorre Eraclito: “per l’uomo il carattere è il demone” (frammento 119). L’inclinazione è la posizione propria della storta dell’alambicco, la disposizione del vaso-contenitore a fare sì che il fluido purificato dalla fiamma costante fluisca nella direzione della propria purificazione e trasmutazione, rivelando infine la propria natura piena, il Pharmakon, il Mercurio filosofico. Il vaso del corpo yogico si dispone a favorire questa inclinazione naturale del fluido interno a separarsi dalla forma grossolana e dalle impurità, per ritornare all’essenza. Il corpo è il distillatore, la storta, l’angolo con cui si può inclinare il movimento del Mercurio consapevolmente, secondo Natura.

Anche un celebre passaggio del Vangelo fa dire a Gesù una ingiunzione similare: «non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» (Marco 7,15), «Fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza». E conclude: «Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo» (Marco 7,21-23). Il serpente è dentro di noi.

Anche per Gorakh è “differente”, non altrettanto efficace, colui che si limita a purificare il corpo [Verso 47]. Occorre accendere il fuoco, la vera purificazione è nel fuoco interiore, l’attenzione costante (focus), il controllo che cattura il respiro nella sua naturale inclinazione. Questa è l’inversione della tendenza.

La postura yogica è di fatto questa “inclinazione” a favorire la trasformazione del principio vitale. Il padrone di casa deve chiudere le nove porte, questo è il mandato della chiusura “ermetica”, come del contenitore del Mercurio universale, o pratihara: il controllo dei sensi [verso 44]. A questo fine la tradizione dello yoga offre degli esercizi appropriati, detti Mudra e Bandha.

Bandha in particolare si riferisce all’azione di “prendere”, catturare ciò che è di per sé argento vivo, inafferrabile. Il triplice Bandha, o Mahabandha, con cui lo yogi chiude i sigilli del corpo, rappresenta fisicamente la forma dell’alambicco con cui cattura il soffio, lo regola “ritardandolo”, cioè controllando il fluire burrascoso verso la morte, e lo mantiene sospeso al giusto calore, a sobbollire per liberarsi dalle impurità letali, per fare del velenoso mercurio naturale, il Goṭikā bandh, il mercurio “fissato” degli alchimisti, che cura ogni malattia. [Verso 49]

Specialmente in epoca moderna, le posture dello yoga, il controllo del seme e la ricerca del Mercurio filosofico hanno conosciuto una straordinaria fortuna letteraria, che si è concentrata sull’aspetto grossolano della procedura; così non stupisce che siano stati utilizzati veri fluidi corporei per ottenere il risultato sperato, come molti si sono applicati nella trasformazione dei metalli; altresì è diventato comune l’Hata Yoga non supportato dalle adeguate istruzioni spirituali.

I Bandha dell’Hata Yoga sono certamente un esercizio utile a fornire uno strumento di concentrazione per lo Yogi, se questi non fosse spontaneamente rivolto o inclinato all’interno. La funzione della procedura è forgiare il carattere e l’inclinazione, per portare dalla conoscenza del corpo alla conoscenza dell’Essere, intendendo così la trasformazione del corpo stesso come esperienza percepita di sé, dall’individuale all’universale.

Quanto al controllo del seme, si può intendere come l’esercizio stabile della continenza di sé, che l’Hata yoga rappresenta nel Mula Bandha, il sigillo con cui lo yogi si concentra a impedire il decadere dell’energia nella dispersione. Da questo livello di purificazione, o di Opera la Nero (dove non c’è luce, controllo proprio), il bindu – riscaldato e non emesso – è quindi naturalmente sollevato al livello superiore, dove deve essere “invertito” con l’esercizio del respiro a “suonare come il corno del Suono Incausato” [Verso 51], come espressione del Brahman stesso. Questo suono si ascolta nel respiro di tutti gli esseri, è la stessa forma del suono del respiro: Ham-Sa (io sono), che fa di ogni essere vivente un soggetto individuato [compare in verso 46, ma resta implicito in tutti i versi]. Quando questo suono causato dalla nascita e dalla condizione vivente, comune a tutte le specie, è rovesciato nel suo passaggio successivo, contrario e complementare: So-Ham (io sono Quello), l’inversione del Bindu può avere luogo e il focus vitale passa la chakra del cuore, dove risuona come “suono non causato”: Anahata. Qui vivifica il seme divino o iniziatico deposto nel cuore, o diventa quel seme. Questa è la chiave dell’Uddyana Bandha, il punto in cui si penetra il Gantha (nodo) del cuore.

A questo punto Gorakh accenna alla tecnica che si chiama Kechari Mudra [verso 60], che accompagna il terzo passaggio dei sigilli, il Jalandhara Bandha, il ripiegamento del collo, l’ultimo passaggio nell’alambicco. Insieme al collo, viene invertita la posizione della lingua, che è l’ultimo organo estroflesso, la parola (che è anch’essa espressione del Bindu), e che dà vita, con il linguaggio, al contenuto del pensiero cosciente. Alcuni yogi hanno tagliato chirurgicamente il frenulo della lingua, obbedendo alle istruzioni di questa tecnica, attribuite ad Adi Nath, per arrivare a penetrare fisicamente il pozzo dell’Amrita situato al di sopra del palato molle. L’aspetto sottile di questa pratica consiste nel rivolgere il linguaggio e quindi le facoltà mentali, percettive ed espressive, a rivolgersi completamente verso la luce interiore della coscienza: in direzione del “puro soggetto” posto al di sopra delle facoltà razionali e linguistiche, e che ne è l’origine.

La voce è chiara, il pensiero è fermo, l’ascolto è totale, il suono interiore è unificato, il Mercurio è preso, catturato e purificato. Il pensiero completamente rivolto sull’essere può solo riempirsi della pura condizione dell’Essere: questa dovrebbe essere l’unica e la sola definizione di Meditazione. Kechari letteralmente significa “volante”, o “che cammina nel cielo”. Colui che ha orientato e conficcato saldamente la sua mente (lingua) al vertice della coscienza, adesso è libero, vola come il vento, o come lo spirito, ovunque voglia, penetra tutti i mondi visibili e invisibili, tutti i corpi, tutti i segreti della natura e del cielo. Sua è la volontà pura, la libertà assoluta. Questo è il Luogo della meditazione vera, e colui che è stabilmente in questa condizione, senza ritorno, si dice stabilito nel Sé. Costui può parlare dei segreti dei tre mondi [Verso 50]
Se dichiarare di percepire il Sè sarebbe una contraddizione, l’esperienza del Suono e del Volo rappresentano il segno che corona i passaggi, o sigilli (Bandha), il compimento della Grande Opera: trarre il respiro stesso, che seguirà la lingua/mente, al più alto dei cieli, al Saharasra Chakra [Verso 53]. Qui tutto gli si svela e gli si offre, pieno e accessibile, nel suo stesso corpo ascolta miriadi di suoni, articolare tutte le voci del mondo, nutrito dal nettare di settantadue lune, dove “ la luce primordiale risplende”.

Suona perciò come un’esortazione e come un grido di giubilo [verso 50]:

Questa stessa mente è Sakti, questa stessa mente è Siva.

Questa stessa mente è l’anima dei cinque elementi.

Colui che controlla la mente e rimane nell’unmani,

Può parlare dei segreti dei tre mondi.

Il seme è bianco e rosso, puro e impuro, in natura i due poli sono indistinguibili. La coscienza, il seme Bianco, soffio dell’eterno, e il Rosso sangue del divenire della materia formante e delle sue molteplici informazioni sono uniti nel corpo vivente in modo indistricabile. Lo Yogi deve apprendere a conoscere come i due poli complementari si muovano in concerto e in parallelo, osservando il soffio del “respiro”, caldo e freddo: lei il soffio ascendente della passione e del desiderio, caldo e eccitante, lui discendente, passivo, quieto, immobile e bianco, che abita invisibile nel soffio freddo. Essi sono nel respiro, ma si manifestano palesi nella psiche, che per gli antichi è soffio, suono dell’accordo dei due soffi, che producono immagini, forme ed esperienze vive. Al centro dei due soffi il terzo e centrale tra i due “tintinna” [verso 56], produce il suono delle cose, l’esperienza viva. Dunque lo yogi conoscerà il suo corpo conoscendo la mente, poiché è per il soffio (psichè) della mente che il corpo fisico fa esperienza di sé e di tutto il resto. La Materia e la Forma, il mio e il tuo, e il testimone di ogni dualità abitano entrambi la mente, che si dirama nei sensi, nei nervi, nelle reazioni del corpo e del pensiero. Ma dove abitava la mente? La mente si trova dove si trova il Bindu e il Bindu segue la mente, poiché essi sono la stessa cosa. Qualunque esperienza, la vita e la morte, sono espressioni del soffio vitale.

Con l’esercizio si purificano i cinque elementi che formano il corpo fisico, il vestito dell’anima [sempre verso 50]. Si riassorbono gli elementi della terra, dal Mula Dhara, all’Acqua nel Swadistana, il fuoco nell’Anahata; e il Vento, che respiriamo ed emettiamo con la gola, nel Vishuddi, ritornano all’Etere infinito, matrice di tutto lo spazio, l’Akasha, nel Sunya il vuoto che precede e sostanzia ogni esistente. Lì è l’unmani, la liberazione dalle forme e dalle sostanze che impregnano la mente, che imprigionavano il Bindu nella materia. Shiva e Shakti sono uniti, e non vi è manifestazione del cosmo, ma il pulsare del cosmo, la sua presenza unitaria, risplendente, essenziale e sempre seminale, vibrante, al di là dell’essere e del non essere, del pieno e del vuoto, e di ogni dualità. Quando la mente è nell’unmani, il bindu è nel suo luogo “geniale”, stabile, perché nel suo stato naturale.

Chiusi “ermeticamente” nella tomba del corpo yogico sigillato, Shiva e Shakti ricordano i due protagonisti di un enigma ermetico del XVI secolo, la lapide di Aelia Laelia Crispis, nota anche come la Pietra di Bologna, che si dice che contenga il ‘Segreto della Vita’. E’ una “falsa” iscrizione funeraria romana, dedicata a una certa Aelia Laelia Crispis e tale Lucio Agatho Prisco.


D.M. AELIA LAELIA CRISPIS Nec vir nec mulier nec androgyna Nec puella nec iuvenis nec anus Nec casta nec meretrix nec pudica sed omnia Sublata neque fame neque ferro neque veneno Sed omnibus Nec coelo nec aquis nec terris Sed ubique iacet.
LUCIUS AGATHO PRISCUS Nec maritus nec amator nec necessarius Neque moerens neque gaudens neque flens Hanc nec molem nec pyramidem nec sepulchrum Sed omnia Scit et nescit cui posuerit.
Hoc est sepulchrum intus cadaver non habens Hoc est cadaver sepulchrum extra non habens Sed cadaver idem est et sepulchrum sibi

D.M. Aelia Laelia Crispis né uomo, né donna, né androgino né bambina, né giovane, né vecchia né casta, né meretrice, né pudica ma tutto questo insieme. Uccisa né dalla fame, né dal ferro, né dal veleno, ma da tutte queste cose insieme. Né in cielo, né nell’acqua, né in terra, ma ovunque giace.
Lucio Agatho Priscus né marito, né amante, né parente, né triste, né lieto, né piangente, questa né mole, né piramide, né sepoltura, ma tutto questo insieme sa e non sa a chi è dedicato.
Questo è un sepolcro che non contiene alcuna salma Questa è una salma non contenuta in alcun sepolcro ma la salma e il sepolcro sono la stessa cosa.

Lelia è il principio femminile, Shakti, la grande Madre, Natura, che ha nome di un fiore: non è né uomo, né donna, né androgino, né casta né meretrice (ma tutti i generi e tutte le forme viventi), essa è morta di tutte le morti che il divenire impone ai corpi viventi. Lui, che è Lucio, coscienza di Agatho, il buon demone (serpente), Prisco, primigenio, che non è né marito, né amante, né triste, né lieto, è fermo, equanime sepolto insieme alla sua compagna inseparabile. Sa di essere ciò che è, ma non può dirsi né questo né quello.

Il corpo sigillato alla maniera di un sepolcro, che li contiene, non contiene un cadavere, ma la vita stessa, il cadavere dello yogi non è contenuto nel sepolcro ma è il sepolcro di se stesso. Queste parole potrebbero essere state scritte da uno Yogi Nath, indicando lo stesso enigma e la stessa pratica e dottrina segreta. Da questa “tomba”, lo Spirito risorge immortale.

“Trasformatevi” dunque “da pietre morte in pietre filosofiche viventi”.

Om Shiv Goraksh
Adesh Adesh

Udai Nath 13.12.2020

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