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Percorsi di Meditazione

Percorsi di Meditazione Indiana a Pesaro

Che cos’è la meditazione

Meditazione e contemplazione sono le sole attività che ci rendono pienamente umani e che ci competono.
In meditazione, pensiamo come pensano le montagne, gli alberi, gli animali, le stelle, i fiumi… Ciò che ci rende più umani ci porta all’unisono con il cosmo, che è una ininterrotta meditazione, una sola mente che respira e vigila in ogni essere.
Siamo allora pienamente umani, coscienza e contemplazione. Ciò che ci rende più vicini a noi stessi ci rende partecipi del tutto.
Realizzare questo Sè è il solo scopo della vita.

Questa coscienza universale che sente, pensa e respira con la vita di tutti gli esseri, è come una foresta che pensa attraverso le innumerevoli radici, ramificazioni e foglie degli alberi, che regola la vita e la diversità degli animali, e produce le sue piogge, il suo clima, e nutre il suolo da cui trae nutrimento e forma ogni essere che la abita e che a essa contribuisce. Questa mente e potenza è Shiva. Simile a una foresta è il nostro corpo e i suoi canali. Simile è il cielo in cui ruotano ordinati gli astri e le costellazioni.
Meditare è unirsi a ciò che è Uno, il supremo Sé che medita ogni cosa.

Come meditiamo

Il Rituale (Puja)
La Puja è l’offerta devozionale che si rivolge agli Dei, davanti alle loro immagini, come al cospetto degli Dei stessi, in una dimensione fatta di canti e di gesti rituali arcaici. Agli Dei si offre amore e bellezza, restituendo luce alla luce, ciò che essi hanno donato a noi. Acqua, cibo, fiori, incenso, fuoco e soprattutto suoni e canti, mantra, li risvegliano e li chiamano, ma sostanzialmente il devoto porta il suo cuore di fronte a Loro, così che ne contempla la Grazia discendere davanti ai propri occhi…
La ritualità indiana è formulata in modo da suscitare il sacro stupore, primo stadio della meditazione, felice intuizione e salvezza, dicevano gli antichi iniziati, di coloro che avevano “visto” i Misteri. E’ esperienza del suono che risveglia, che scioglie le tensioni, che pacifica la mente, e della luce che riaccende la meraviglia e l’intuizione immediata del Vero. Puja è suscitare l’amore e la benedizione universali.

Puja è esprimere nel proprio presente qualcosa che risuoni di bellezza e di significato. È decidere che il proprio tempo sia segnato e costellato di esperienze significative e potenti, cariche di energia.
Mentre la vita ordinaria scorre semiaddormentata nella legge del Karma, ottusa, l’esubero di dono che la puja rappresenta è l’esubero della Grazia, che è consapevolezza.
Si offre agli dèi quel sovrannumero che l’avidità del mondo non lascerebbe. Quell’esubero che è il fiore, il germoglio, il frutto perfetto, la primizia, il profumo, che già sono, non visti, su questa terra, e che noi stessi siamo. Quel sovrabbondare della Grazia che cogliamo in natura, che cogliamo in noi stessi nel profondo della meditazione e, sottratto con la nostra attenzione dal decadere reificato, cosa tra le cose, invece eleviamo all’attenzione del divino, come offerta, come unificazione.
Allora ci viene restituito in Grazia, perché proviene dalla Grazia, prasad, benedizione, frutto, biscotto.
Quel dono nutre ma non si consuma. Si nutre con la pratica, la consapevolezza, la devozione, perché si accresca quel sovrannumero, quella differenza di stato, quella potenza elevante, quel nutrimento sottile di luce, ci nutra nei giorni che ci restano, ci attenda intero e compiuto, come pienezza, quando trascenderemo ogni separazione.


Le Sacre Scritture (Sastra)
Le scritture sacre rappresentano enigmi, passaggi stretti che mettono in scacco la mente ordinaria. L’enigma ha la funzione di portare la coscienza a superare la dualità e il raziocinio passivo della mente, per aprire “il fiore dell’intuizione”, la coscienza immediata, diretta, luminosa, abissale. Questa sospensione, o epochè, scatenata dall’istruzione spirituale, appende all’osservazione delle cose ultime, finali, del gioco divino, della presenza universale palpitante e reale, che si svela palese “come una mela sul palmo della mano”. Finché la contemplazione si arresta ulteriormente, nella sospensione perfetta, nella pura realizzazione del Sé. 

Il Fuoco Sacro (Hawan)
Il rito del Fuoco, che si svolge in alcuni periodi propizi dell’anno, è probabilmente la forma di meditazione religiosa più antica al mondo, la forma primordiale di liturgia. Il Fuoco, che è luce e trasformazione, è stato osservato perciò alle origini come il perfetto canale di comunicazione con il Cielo, poiché tutto ciò che arde in esso si trasforma in verticalità, ascesa, luce. Al Fuoco (Agni) le scritture vediche indicano il compito di riportare la creazione all’unità divina, ricomponendo la frammentazione, la dispersione e la dualità. Sarà così conferito ad Agni il nome di Rudra, Sarva (tutto), Pasupati, Mahadeva, Signore degli Dei. Agni è quindi Rudra e Mahadeva, che i devoti chiameranno poi il Benevolo, Shiva. Attorno al fuoco si ispirarono i canti e i poemi religiosi, si composero le prime forme dell’aggregazione umana, la distribuzione equa dei beni e l’ordine sociale primario, le tecniche e la sapienza. Perciò è detto “poeta” e “inventore”, “primo sacerdote”, ecc. Officiare il rito del Fuoco è ritornare all’origine della nostra natura spirituale, umana, e divina. Dopo la creazione, “è ciò che fecero gli Dei”.

Respiro e suono (Prana e Mantra)
Le poche e semplici istruzioni della Meditazione ritornano alla verità fondamentale del respiro e del suono, nella presenza a sé stessi, nella potenza del silenzio. Suono e respiro sono le colonne portanti dell'”io sono”, la profonda natura della coscienza, il seme divino deposto nella vita vivente. Potenza interiore a cui possiamo attingere, discendendo nel profondo di noi stessi. Entrare in contatto con la Mente Profonda (Unmana) è sospendere l’attività ordinaria della mente, per raggiungere la sorgente interiore della vita, del benessere, della creatività e della guarigione.

Simboli, Astri, Dei (Devata)
Si contemplano le potenze benevole e terribili che formano i grandi movimenti del cosmo, che muovono le cose grandi, come le più piccole, infinitesimali. Grandi potenze archetipe , cariche di emozione e espressione, che sostengono il tempo, la forma, il significato, la direzione, il magnifico e multiforme volto della Natura. Contemplare i grandi Dei non è dualità, è elevare la mente al di sopra dei fatti che compongono transitoriamente l’esperienza, sostare nello stupore della magnificenza, arrestarsi a contemplare il cosmo, la sua mente profonda, la sua tragedia e redenzione. Contemplare è meraviglia e distacco dall’io. Questa sospensione nello stupore è la porta della meditazione. Con la contemplazione si comprende che “ciò che è in alto è come ciò che è in basso, poiché i due sono uno”.  Quella Unità è Dio, lo scopo della meditazione e della nostra esistenza.

Il dialogo. Satsang e satsang individuali.

Il dialogo terapeutico è nato originariamente all’ombra dei padiglioni dei templi indiani, dove il sadhu è seduto in contemplazione e viene avvicinato dal pellegrino che è arrivato in visita al tempio, trasportando il suo bagaglio di vita vissuta, di dolore e di speranza. Avvicina il monaco con un cesto di frutta e un’ offerta, e gli chiede permesso di sedersi e parlare.
Nei primi secoli dell’ era cristiana, Clemente Alessandrino in Egitto racconta la vita di un folto gruppo di eremiti del deserto, che sono il primo esempio di monachesimo in occidente, e che si chiamano Terapeuti, dove terapia è inteso nel senso originario di “servizio”.
Lo yogi Aughar (Ogar) è ugualmente inteso come colui o colei la cui vita è dedicata al servizio… Ed è quello che impariamo a fare servendo nella casa del Guru durante il nostro apprendistato, in cui non solo la conoscenza del sacro e delle scritture è testata, ma ogni gesto quotidiano, la cura di sé come della casa, dei suoi ospiti, e di ogni scambio, ogni parola, affinché tutta la personalità sia formata a svolgere un pieno magistero nel servizio, con spirito equanime e compassione amorevole. Con i fratelli, con i visitatori, con i devoti, con gli dèi, che visitano il santo assumendo forme irriconoscibili… Nel cuore di ogni creatura è il Supremo.
“Deposita la tua pena ai piedi di Dio” è detto, “Lui ne avrà cura”. Ma perché si possa davvero esprimere questo abbandono la coscienza deve esprimere l’intenzione quanto essere finalmente consapevole del suo contenuto. Occorre un ascolto attento e uno sguardo che restituisca riconoscimento di sé, verità, semplicità e profonda chiarezza.
A differenza delle forme di terapia moderne, il Satsang non ha un tempo previsto. Incomincia quando il cuore del devoto decide di parlare, e termina quando il colloquio ha sortito una soluzione limpida, accettata e condivisa. Il Satsang deve portare chiarezza, pacificazione, e restituire il punto vitale, pulsante e vivo, che era avvinto nelle ombre della mente. Con quella luce ritrovata, con quella chiarezza, si può riprendere il proprio cammino.
Il Satsang invita certamente anche a proseguire questo lavoro di conoscenza di sé, che ciascuno deciderà a seconda della sua indole.


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